Blu Godzilla

«La mitologia è la nostra bussola», qualche riflessione su Godzilla II: King of the Monsters

Cristina Resa
6 min readMay 31, 2019

Godzilla, King of the Monsters. Il Re e, a seconda dei casi, distruttore o salvatore. «È come un simbolo della complicità umana nella sua propria distruzione. Non ha emozioni, lui è un’emozione ha detto una volta Jun Fukuda, regista di diversi sequel degli anni ‘60-’70, a cominciare dal settimo, “Il ritorno di Godzilla” (quello con l’aragosta gigante Ebirah, per intenderderci).

È una delle descrizioni più azzeccate che vi possa capitare di leggere. Riassume in maniera poetica ma non meno rigorosa l’essenza stessa del mostro atomico e dei kaijū in genere. Una tipologia di esseri che solo una cultura animista shintoista come quella Giapponese poteva creare e far evolvere in una vera e propria mitologia mostruosa in continuo mutamento.

E infatti, questi mostri giganti, nati per intrattenere il pubblico, possono essere visti come una incarnazioni dei Kami, gli spiriti che rappresentano le forze naturali. Cambiano di forma, aspetto e funzione a seconda dei tempi.

Se credete che stia esagerando, pensate soltanto all’impatto culturale che ha avuto quella primo Gojira della Toho, diretto da diretto da Ishirō Honda nel 1954, non solo all’interno del filone dei kaijū eiga (“film di mostri giganti”), ma proprio sul cinema in genere. Pensate all’importanza, anche solo iconografica, di quel goffo gigante marino con il muso un po’ da gatto, creato dal genio degli effetti speciali Eiji Tsuburaya. Pensate ai 65 anni di tradizione continuativa, ai 29 film realizzati in giappone dagli anni ’50, divisi nelle quattro Ere — già, perché i giapponesi dividono la loro storia in Ere — Showa, Heisei, Millennium e Reboot.

E così, se il primo Gojira rappresentava l’incarnazione della natura che si vendica sull’umanità per aver creato la bomba atomica, nell’ultimo di Hideaki Anno, il bellissimo Shin Godzilla (2016), il mostro gigante diventa simbolo dell’immobilismo politico del paese, dell’inettitudine dei suoi capi, della burocrazia farraginosa, soprattutto dopo il disastro di Fukushima.

Sembra una divagazione inutile, me ne rendo conto, ma credo sia una premessa necessaria per spiegare il mio punto di vista su Godzilla II: King of the Monsters, sottolineando il grande impatto dei film Toho sulla cultura di provenienza. E, naturalmente, viceversa.

Verde Mothra

I film di giapponesi di Godzilla, praticamente tutti, hanno questa natura ossimorica: hanno un’apparenza ingenua, a volte caricaturale, prendono elementi dalla mito, dalla fiaba, dalla fantascienza grossolana (le fatine Shobijin/Cosmos, protettrici di Mothra, la principessa posseduta dallo spirito di un abitante di Venere scampato alla furia di Ghidorah, Minilla il figlio di Godzilla), sono estremamente funzionali al puro intrattenimento, ma affondano sempre le loro radici in questa profonda tradizione animista.

Parlano del mondo e degli esseri umani che ci abitano, ma senza mai focalizzarsi sui singoli personaggi. La storia dei mostri riflette sulla collettività, ma sono i mostri stessi i protagonisti del racconto. Mostri che si scontrano con altri mostri. Perché, ehi, è proprio quello il punto.

È questo che il cinema americano non ha mai capito davvero di Gojira, fin dal primo contatto con il mostro, attraverso quella versione rimaneggiata e tagliuzzata del film del 1954, a cui erano state aggiunte scene con Raymond Burr. Uscito del 1956, fu chiamato King of the Monsters!, proprio come questo Godzilla II di Michael Dougherty. A me piace pensare che questo sia un modo per vendicare il mostro del ‘54.

È, infatti, evidente che Dougherty, proprio come aveva fatto Gareth Edwards nel primo reboot, abbia provato a riallacciarsi alla tradizione giapponese di cui vi parlavo, nel tentativo di creare un vero e proprio kaijū eiga, in grado di essere sentito dal pubblico occidentale. Allo stesso tempo, Dougherty vorrebbe confezionare un film da popcorn vecchio stile, cosa che il regista ha già dimostrato di saper fare con gli horror Trick ‘r Treat, ormai diventato di culto, e Krampus.

Lo dico subito a scanso di equivoci, ma me il film non è dispiaciuto per tutta una serie di motivi su cui tornerò, ma l’operazione non riesce in toto. Principalmente perché, se tutta la parte del film dedicata ai mostri — principalmente Godzilla, Mothra, Rodan e Ghidorah — e al loro legame mitologico funziona ed è una gioia per gli occhi di ogni appassionato, le vicende dei protagonisti umani non stimolano nello spettatore nessun interesse.

Mi rendo conto che lasciare gli esseri umani sullo sfondo non sia un’opzione nemmeno considerabile per il cinema americano, che vede nella famiglia il fulcro intorno al quale costruire l’intera vicenda, che si tratti d’avventura, di fantascienza o di mostri grossi. Mi piace chiamarla “sindrome Amblin” (ma in realtà è qualcosa di intrinseco all’individualismo occidentale) e quando non funziona, è una vera piaga.

Anche Godzilla di Edwards aveva lo stesso difetto, ma nel film di Dougherty è reso forse più evidente da una scrittura goffa e dalla poca convinzione di Kyle Chandler, Vera Farmiga e Millie Bobby Brown nell’interpretare personaggi che agiscono meccanicamente, per far progredire la trama e fornirci spiegazioni su quello che stiamo vedendo.

Il problema è che l a trama, in un film di kaijū, dovrebbe riguardare l’umanità intera e gli spiegoni non sono necessari, quando la metafora è tanto semplice e cristallina. Siamo in piena emergenza climatica e non serve sottolineare nulla. Capiamo da soli cosa rappresentano questi mostri grossi che si prendono a pizze. Inoltre, delle vicissitudine di questa famiglia americana toccata dal dramma a causa di queste creature, non ci importa nulla. Si tratta di una distrazione che finisce per diluire la potenza visiva primordiale del film.

Rosso Ghidorah

Molto più interessanti e funzionali, ma troppo marginali nell’economia di Godzilla II, sono invece i ruoli interpretati da Ken Watanabe e Zhang Ziyi, volti a avvolgere la figura dei kaijū di quella leggendarietà che è propria di questi Titani, ricollegandomi al contesto animista a cui accennavo. Godzilla, Mothra e co. come rappresentazione dell’ordine delle cose, della potenza della natura di fronte alla tracotanza umana, del valore del mitologia nell’indicare la via (è “una bussola”, come dicono nel film).

Sulla carta, si tratta di un modo coerente di adattare mito di Godzilla a un contesto occidentale e sarebbe stato meglio concentrare tutte le forze degli sceneggiatori (lo stesso Michael Dougherty, insieme a Zach Shields) in tal senso, superando la “sindrome Amblin”, almeno per questa volta.

Bastano, tuttavia, i mostri, bellissimi e grandiosi, nella loro esplosione di luci e colori, nelle cromatiche nette — blu, verde, rosso — di Dougherty delle scene che li riguardano, nei simbolismi che li accompagnano.

C’è Godzilla, così simile, nelle proporzioni, a quello di concepito da Eiji Tsuburaya e interpretato da Haruo Nakajima (scomparso nel 2017, a cui è dedicato il film), con i suoi denti tutti pazzi, le zampe sgraziate e il potentissimo raggio atomico blu. Mothra, la mia preferita da sempre, protettrice della Terra, che riesce a mantenere la propria natura fiabesca e eroica, pur dovendo rinunciare in parte al background originale — le origini isolane, le fatine Shobijin e la sua canzone di invocazione in malese, a cui però ci sono precisi riferimenti — per semplice anacronismo. Rodan, il gigantesco mostro alato simile a un pteranodonte. King Ghidorah, idra dorato e cattivissimo che sembra uscito da un bestiario medioevale, le cui teste litigano tra loro come nei film Toho.

E poi ci sono le citazioni ai film, gli easter egg e tutta una serie di elementi che vanno a stimolare l’emotività dell’appassionato di Godzilla.

I non appassionati, invece, faranno fatica a passare sopra i mastodontici difetti e l’aspetto bizzarro di alcuni kaijū classici (lo stadio larvale di Mothra in primis) di “Godzilla II: King of the Monsters”. Ma d’altronde, se siamo qui, siamo venuti per vedere i mostri alti come un palazzo menare le zampe, no?

Prossima tappa: Godzilla vs. Kong. Chissà se finirà come la scorsa volta.

Mitologia
(da Ghidorah! Il mostro a tre teste)

Originally published at http://www.loudvision.it on May 31, 2019.

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Cristina Resa

Ho studiato quel genere di cose che negli horror fanno fare una brutta fine. Scrivo di cinema e libri.