Mad Max oltre la Fury Road: un approfondimento

Cristina Resa
6 min readMay 29, 2015

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«Dove dobbiamo andare, noi che siamo costretti a vagare per queste lande desolate alla ricerca della nostra parte migliore?»

Il primo custode della Storia

Mad Max: Fury Road di George Miller è un film tecnicamente straordinario, in cui per due ore viene raccontato l’assalto ad una blindocisterna. Ma, certamente, non può essere ridotto soltanto a questo. Se si guarda attentamente, dietro a quei veicoli dall’incredibile design, le esplosioni e le stupefacenti acrobazie, si può scorgere un mondo intero.

Strettamente legato alla tradizione dei film precedenti, è allo stesso tempo qualcosa di profondamente diverso: non un remake, né un reboot, né tantomeno un sequel, non nel modo canonico in cui generalmente si intende. Se esistesse un’etichetta in grado di indicare un prodotto letterario in cui la storia venga continuata, ma al tempo stesso continuamente rimodellata, quella sarebbe l’etichetta da usare. Dal canto mio, mi piace pensare a Mad Max: Fury Road come a uno degli episodi di una saga epica e a George Miller come al mitografo di quel mondo da lui stesso creato.

Quella di Mad Max è, infatti, una saga cinematografica atipica dal punto di vista della continuity. Considerata tutta di seguito, la storia appare assolutamente disorganica. È lo stesso Miller a dichiarare di non riuscire a «capire la cronologia del primo, secondo e terzo, e tanto meno il quarto trent’anni dopo». Non si tratta di negligenza o trascuratezza, ma di precisi intenti narrativi.

Tra un episodio e l’altro, infatti, Max non sembra mai essere esattamente lo stesso personaggio e il mondo circostante non viene mai raccontato esattamente nello stesso modo. Persino i generi cambiano di volta in volta, si mescolano, andando a formare qualcosa di nuovo e inaspettato. Miller si serve di Max e di quel suo mondo per sperimentare, dire cose diverse, esprimersi attraverso simboli sulla contemporaneità.

Interceptor (Mad Max, 1979), violentissimo road movie in pieno stile anni ’70, ambientato in un futuro prossimo distopico, ma non così diverso dalla società contemporanea, diventa il suo modo per riflettere sulla crisi petrolifera del 1973 attraverso la lente di questo mondo in decadenza, ma anche sul rapporto tra ordine e caos, legge e giustizia, presentandoci un Max diversissimo da quello che abbiamo imparato a conoscere. È un poliziotto che perde ogni speranza nel momento in cui il mondo in cui vive gli strappa ogni cosa.

È, però, con Interceptor — Il guerriero della strada (Mad Max 2: The Road Warrior, 1981) che avviene la rottura. Il regista australiano prende il suo protagonista e lo catapulta in nuovo scenario. Lo fa sopravvivere ad una guerra globale e lo pone al centro di una lotta per le scorte di combustibile (e anche qui, la riflessione sulle risorse energetiche è quanto mai evidente). Il contesto, così come l’immaginario, è ormai quello post-apocalittico e Max è profondamente cambiato: adesso è il viandante taciturno e dal passato oscuro dei film western, l’anti-eroe che sembra quasi agire per suo tornaconto, che arriva in città, risolve i problemi e continua il suo viaggio. Miller non ha alcun interesse a colmare la lacuna tra il primo e il secondo film. La storia, d’altro canto, potrebbe funzionare anche senza sapere nulla del suo passato.

Max non è già più Max Rockatansky, ma è l’eroe di cui narrare le gesta alle generazioni future. La cosa è già chiara sul finale, quanto il narratore, che si rivela essere un ormai anziano Kid, il ragazzino con i boomerang, ora capo della Tribù del Nord, racconta di come Max sia diventata una figura leggendaria per il suo popolo.

L’elemento del racconto risulta centrale anche in Mad Max — Oltre la sfera del tuono (Mad Max Beyond Thunderdome, 1985). Miller questa volta prova la strada del film d’avventura, qualcosa di molto simile al cinema per tutti di Steven Spielberg, di Chris Columbus e della Amblin. La riflessione sulla crisi energetica è sempre centrale, ma questa volta si assiste alla volontà di esplorare quel mondo traboccante di simbolismo.

Ci viene così mostrata la nuova realtà urbana di Bartertown, la città che funziona con l’energia ricavata dagli escrementi di maiale, nella quale i conflitti vengono risolti con scontri fino alla morte nell’iconica gabbia chiamata Thunderdome. Il centro urbano ci viene presentato quasi come un’utopia da Aunty, che regna nella città superiore, mentre nel livello inferiore Master Blaster cerca di mantenere saldo il proprio dominio sulle scorte energetiche.

Sarebbe davvero difficile non vedere un chiaro riferimento ad un modello archetipico di mondo di sopra e di sotto, in cui l’eroe compie le proprie fatiche. Dall’altra parte, in contrapposizione, c’è la comunità tribale dei ragazzini scampati ad un disastro aereo e cresciuti in un nascosto luogo verdeggiate, ignari del mondo circostante. Una società, quest’ultima, basata sulla cultura orale e sul mito del ritorno dell’eroe, aspetto che non manca di essere sottolineato nella sequenza finale, che mostra una delle ragazze salvate, ormai diventata donna, mentre racconta alle nuove generazioni la leggenda di un uomo chiamato Max.

Il discorso precedente è essenziale per capire Fury Road dal punto di vista narrativo. Il film sembra quasi essere il punto d’arrivo, almeno per il momento, di un percorso durato decenni, forse in parte inconsapevole (un discorso ripreso in mano da Miller già nel 1997, insieme a Brendan McCarthy, di cui vi invito a visionare gli splenditi concept preliminari).

La storia di Mad Max non può più tornare nei binari della continuity, è diventata un racconto che coinvolge passato e presente, storia e mito, in cui il tempo scorre in maniera inesplicabile e le distanze non hanno significato. Non importa che Max abbia cambiato faccia, che la sua età o i ricordi in Fury Road siano del tutto incompatibili con le vicende narrate negli altri capitoli. Non importa nemmeno sapere se Max sia davvero Max Rockatansky o, come hanno ipotizzato alcuni fan, un altro eroe, forse il piccolo Kid del secondo film. È curioso che questa volta sia lo stesso Max ad introdurci la vicenda, in prima persona, ma forse necessario per approfondire un personaggio così imperscrutabile. Anche questo, però, è parte del mito.

George Miller sceglie di trattare la saga quasi come se fosse il racconto per immagini del patrimonio culturale collettivo dei popoli di quel mondo da lui stesso creato e di cui probabilmente conosce i più piccoli particolari (sappiamo, infatti, che il regista aveva preparato un archivio con tutte le informazioni su personaggi, gerarchie e tribù). Un mondo costruito da sapienti pennellati ed accenni ad società culturalmente stratificate, che possiamo scorgere nei piccoli gesti rituali, nelle espressioni usate, nei neologismi. Un modo di raccontare la storia che non ci consegna il quadro completo, ma ci costringe ad immaginare e riflettere.

Vediamo la città di Immortan Joe, con i suoi ingranaggi e congegni per estrarre l’acqua dal sottosuolo, mentre di Gastown riusciamo solo a vedere le ciminiere all’orizzonte e di Bulletfarm ci viene detto soltanto il nome. Questi tre semplici elementi, però, sono sufficienti a farci pensare ad una società basata su città-stato e caratterizzata dall’altissima specializzazione delle produzioni.

Vediamo il luogo sacro dedicato al culto del V8 e proviamo ad ipotizzare in quale modo sia collegato alla credenza sul Valhalla e alla morte eroica in battaglia dei Figli della Guerra. Quest’ultimi sono giovani dai corpi afflitti da ogni tipo di malattia (forse per le radiazioni), destinati già dalla nascita ad una morte prematura (l’emivita), kamikaze (o meglio, “kami-pazzi”, come si chiamano loro stessi) che hanno trovato realizzazione nell’essere lo strumento disumanizzato di Immortan Joe. Miller riesce a tratteggiare un immaginario rituale nel pieno dell’azione più concitata, con quel “Ammiratemi!” che in italiano non riesce a rendere fino in fondo il meraviglioso concetto, fortemente connotato ritualmente, espresso con “Witness me”.

L’altra faccia di una stessa società, quella in lotta con il potere dominante e la dottrina della guerra, ci viene presenta attraverso le azioni di Furiosa e le parole delle spose di Joe, per le quali i Figli della Guerra sono solo strumenti inconsapevoli. Conosciamo poi le vuvalini, ultime sopravvissute della tribù d’origine di Furiosa, il clan delle molte madri, donne appartenenti ad una società di stampo agricolo e matriarcale che, a causa delle circostanze, si sono trasformate in guerriere, ultime custodi di questo tipo di conoscenze.

Tutto questo, e ancora molto altro, ci viene raccontato visivamente, usando poche ma sapienti parole, come solo i grandi narratori riescono a fare. E dietro lo scenario apocalittico di questo mondo costantemente in guerra, dietro a quella folle corsa sulla Fury Road, è possibile riconoscere qualcosa del mondo odierno.

Mad Max: Fury Road non è dunque il film semplice e non racconta una storia semplice: è un’opera che trabocca d’immaginazione e ricerca, in cui cui George Miller sceglie una modalità espressiva, quella del mito, complessa, sperimentale e del tutto inaspettata, soprattutto per un film destinato al grande pubblico.

Originally published at www.loudvision.it on May 29, 2015.

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Cristina Resa

Ho studiato quel genere di cose che negli horror fanno fare una brutta fine. Scrivo di cinema e libri.