Star Wars: L’ascesa di Skywalker e la «cultura convergente»

Dove rifletto sul potere di quella «cultura convergente» di cui L’ascesa di Skywalker rappresenta uno dei suoi prodotti più emblematici

Cristina Resa
5 min readDec 18, 2019

Star Wars: L’ascesa di Skywalker non è un film come tutti gli altri. Porta sulle spalle il peso enorme della tradizione, la responsabilità del rinnovamento e il carico di aspettative di almeno quattro generazioni di spettatori.

Nel momento in cui si uniscono le trame e si dà forma definitiva a una saga tanto iconica — amata e idolatrata a tal punto da diventare non solo folklore postmoderno, ma anche una vera e propria “ religione iperreale “ — bisogna fare delle scelte.

E J. J. Abrams, tornato al timone di questo Episodio IX scritto insieme a Chris Terrio, sembra aver fatto delle scelte in una direzione ben precisa. Non la direzione che personalmente mi aspettavo. Non quella che avrei voluto per la saga.

Mi scuso per il tono personale che questa recensione prenderà, ma, al di là del valore artistico o commerciale dei singoli film, esistono narrazioni in grado penetrare così in profondità nella sfera emotiva da diventare una questione personale.

In questa nuova trilogia ci ho creduto forse più di altri. Anche riconoscendone i difetti strutturali e narrativi, alcuni dai quali comuni all’intera saga, ho apprezzato il fatto che dietro Il Risveglio della forza e Gli ultimi Jedi si potesse riconoscere la volontà di tracciare un percorso verso il futuro di un’epopea che appartiene a tutti.

La riproposizione morfologica quasi pedissequa del modello originale di George Lucas in Il risveglio della Forza (ve ne parlavo qui) mi era sembrata estremamente efficace per riprendere le fila, ricollegarsi al monomito e a tutti i temi della prima trilogia, così da permettere a un film riformatore come Gli ultimi Jedi di ancorarsi alle fondamenta di questa tradizione. Rifondare il mito, scrivevo all’epoca. Decostruirlo per poi ricostruilo. Restituirgli significatività, “qui e adesso”.

Al centro di tutto stava la Forza, quel campo energetico creato da tutte le cose che mantiene unita tutta la galassia. Nel film di Johnson smetteva di appartenere soltanto ai predestinati, cioè ai Jedi (e, di conseguenza, ai Sith), ma sembrava diventare virtualmente accessibile a tutti.

Un’eresia, per il fandom più consolidato e chiassoso, che, se potesse, congelerebbe nel tempo e nello spazio tutte le cose che hanno amato da bambini. Quei fan troppo impegnati a rimanere aggrappati a un’idea di passato idealizzata di cui rivendicano la proprietà. “Mi hanno stuprato l’infanzia” si sente dire spesso, senza mai pensare all’infanzia di chi la sta vivendo adesso. E capisco anche che sia arrivato il momento di creare nuove epopee, ma quella di Guerre Stellari, proprio per il suo peso culturale, fa storia a sé, per la capacità di attraversare e unire le generazioni come facevano i miti nel mondo antico.

Ma si sa, la cultura condivisa è quel posto strano in cui tradizione del passato e elementi del presente entrano in conflitto. Nel caso di Star Wars, si parla spesso di una “cultura convergente” nella quale il fandom si ritrova agente attivo nell’imporre direzioni e dare nuovi significati. Inoltre, non dobbiamo mai dimenticare che Star Wars rappresenta anche e soprattutto un prodotto da vendere a un gruppo più ampio e eterogeneo possibile. Tutti questi fattori lo modificano e lo influenzano. Questo mi sembra forse l’aspetto più interessante di un’operazione che, comunque siano andate le cose, mi ha dato l’opportunità di osservare direttamente i meccanismi di una delle più importanti narrazioni popolari dell’età contemporanea.

Cosa voglio dire con questa lunga introduzione? Che questa volta il fandom più reazionario l’ha avuta vinta. Star Wars: L’Ascesa di Skywalker inverte la rotta, normalizza il film di Johnson e cerca di “mettere una pezza” alle critiche al film precedente in maniera nel migliore dei casi convenzionale, nel peggiore puerile, cercando di piacere a tutti.

Manca di coraggio e ispirazione in fase di scrittura, si perde spesso in spiegazioni ridondanti e soluzioni frettolose, sottovaluta il proprio pubblico.

Sulla trama, preferisco non dirvi nulla se non che questo ultimo capitolo inizia con il Leader Supremo Kylo Ren ( Adam Driver) sulle tracce di una voce proveniente dal passato, nel tentativo di fare tabula rasa della vecchia guardia e creare un nuovo mondo su cui governare. Nel frattempo, Rey ( Daisy Ridley), Finn ( John Boyega), Poe ( Poe Dameron), Chewbacca ( Joonas Suotamo), Leia ( Carrie Fisher) e gli altri eroi della resistenza cercano un modo per difendersi dagli attacchi del Primo Ordine, tornato con una nuova, letale, flotta di navi.

È proprio il passato a mangiarsi tutto il resto in Star Wars: L’Ascesa di Skywalker. Quella che aveva le potenzialità per essere una saga destinata alle nuove generazioni, diventa la conclusione di un vecchio affare “di famiglia” tra singole personalità: padri, madri, genitori e figli predestinati. Si potrebbe ovviamente appellarsi al valore delle strutture narrative classiche, ma dopo un film come “Gli ultimi Jedi”, dopo lo sguardo pieno di speranza e fierezza con cui il ragazzino alla fine del film di Johnson guardava le stelle, questo non basta più.

Certo, c’è sempre la resistenza, ma finisce per avere quasi un ruolo minore, andare a delineare il contesto in cui vengono consumate queste faide familiari, laddove invece dovrebbe rappresentare il cuore pulsante di una storia che parla, sostanzialmente, di uscire per le strade, combattere il totalitarismo e plasmare il proprio destino. E non è un caso che le scene che riguardano la resistenza, portatrici di un eroismo non individuale ma comunitario, siano quelle sicuramente più riuscite.

C’è da dire che J. J. Abrams non è un regista della prima ora e riesce in parte a sopperire alla debolezza della sceneggiatura con un buon controllo sugli altri mezzi. Lavora sull’emotività dello spettatore con un sapiente utilizzo di tutti i temi musicali e attraverso l’introduzione di riferimenti, citazioni e personaggi molto amati e riconoscibili. Tuttavia, non lascia al pubblico nemmeno un attimo per fermarsi, respirare, riflettere e addentrarsi nelle dinamiche umane.

Le sequenza di battaglie sono indubbiamente spettacolari e il ritmo è sempre altissimo, anche se la velocità con cui si susseguono gli eventi quasi stordisce. I nuovi personaggi sono accessori mentre la chimica tra i protagonisti funziona, ma non viene mai approfondita. In questo senso, soprattutto per quanto riguarda il forte legame tra Kylo Ren e Rey, il film sembra vivere di rendita grazie — ironia della sorte — al lavoro fatto da Johnson nel tanto bistrattato Episodio VIII.

Gli appassionati di Guerre Stellari hanno visto di peggio e Star Wars: L’Ascesa di Skywalker non è certamente un brutto film, ma un capitolo che scivola via senza chiedere nulla allo spettatore. Anzi, nel tentativo di voler compiacere tutti, rimane come sospeso tra quello che poteva essere e quello che è stato.

È stato un bel viaggio e tornare nei luoghi che si amano è sempre piacevole, ma, lo ribadisco, non è sufficiente. E dopo le ultime sequenze finali, prevedibili ma commoventi e dalla grande potenza evocativa, ciò che rimane è un retrogusto agrodolce un po’ stucchevole, difficile da identificare. Credo sia il sapore della nostalgia.

Originally published at http://www.loudvision.it on December 18, 2019.

--

--

Cristina Resa

Ho studiato quel genere di cose che negli horror fanno fare una brutta fine. Scrivo di cinema e libri.