When we saw them

Una riflessione personale su When They See Us scritta di getto che forse, prima a poi, riuscirò a trasformare in un articolo vero

Cristina Resa
3 min readJun 18, 2019

Quando ho iniziato a guardare When They See Us, proprio durante le primissime sequenze nella stazione di polizia, mi sono girata verso il mio compagno ho detto “No, non ce la posso fare”, con gli occhi già lucidi e un peso alla bocca dello stomaco che, lo sapevo, si sarebbe fatto sempre più insopportabile.

Invece era importante guardare, con gli occhi ben spalancanti, le orecchie aperte e i pugni serrati. Sapere, capire. Anche solo provare a immaginare qualcosa di inimmaginabile, perché noi ci siamo nati nel white privilege. Ed è brutto sentirselo dire, siamo abituati a sentirci dalla parte dei giusti, ma non abbiamo davvero idea che cosa possa significare vivere nella paura vera di camminare per strada, con la testa bassa, cercando di non attirare l’attenzione, soprattutto quella di chi, per lavoro, dovrebbe proteggerti.

E non è qualcosa che riguarda solo gli Stati Uniti, perché è qui anche da noi. È intorno a noi, nelle strade, al supermercato, alle cene di famiglia, sulle pagine dei giornali. È qui e forse lo è sempre stata. Negli Stati Uniti si è fatta “sistema”.

Un sistema che Ava DuVernay spiega molto bene già in 13th, ricostruendo la storia di paese sviluppatosi sullo sfruttamento dei corpi delle minoranze, oggi con un diverso tipo di schiavitù che passa attraverso un sistema giudiziario iniquo. E quelli di cui parla DuVernay sono esattamente i corpi sfruttati, violati, imprigionati e rubati di Get Out e i Doppelgänger di Us di Jordan Peele, ma in una realtà che, abbandonato il filtro del fantastico, si fa più mostruosa della fantasia.

E infatti, in When They See Us DuVernay riprende l’argomento da un diverso punto di vista, con un sistema giudiziario non solo in grado di creare “nuovi schiavi”, ma di dare all’opinione pubblica ciò di cui ha bisogno per sentirsi meglio, protetta dallo Stato. Feed the beast, come si dice.

Ecco perché era così importante scendere all’inferno, anche solo da spettatori, insieme a quei cinque ragazzi — Kevin Richardson, Antron McCray, Yusef Salaam, Korey Wise e Raymond Santana — che non sono, non sono mai stati, i Central Park Five. Senza mai chiudere gli occhi, anche quando si riempivano di lacrime per la rabbia o per un dolore, che, lo dico senza retorica di sorta, ti spezza in due il cuore, come nel caso dell’episodio straziante dedicato a Korey Wise.

DuVernay ha indubbiamente delle cose da dire sul sistema politico e giudiziario del Paese e lo fa senza giri di parole, ma senza essere ricattatoria o stucchevole. Soprattutto, senza smettere mai raccontare la storia di questi cinque ragazzi.

Perché la loro è la storia del Stati Uniti, di ieri e di oggi. E forse anche la storia dell’Europa futura, se si allargano un po’ gli orizzonti e si legge tra le righe.

È una storia intollerabile da ascoltare e proprio per questo necessaria. Perché a volte il cinema (e questo è indubbiamente cinema) serve a farci vedere quello che non possiamo sopportare, ricordarci quello che finiamo per dimenticare, farci provare quello che nemmeno pensiamo di poter sentire. È successo anche con Sulla mia pelle di Alessio Cremonini. Succederà ancora. Deve succedere di più. Anche a costo di sentirlo sempre, quel peso sullo stomaco, insieme al senso di colpa e alla rabbia insostenibile.

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Cristina Resa

Ho studiato quel genere di cose che negli horror fanno fare una brutta fine. Scrivo di cinema e libri.